La segnalazione antiriciclaggio – fra riservatezza e segreto professionale

L’art. 41 del decreto legislativo 231/2007 prevede a carico del professionista l’obbligo di inviare all’UIF la segnalazione di operazione sospetta quando è a conoscenza ovvero sospetta, oppure ha motivi ragionevoli  per sospettare che siano in corso o che siano state compiute ovvero anche solo tentate operazioni di riciclaggio o finanziamento del terrorismo.

In sostanza mediante l’invio della segnalazione il professionista è tenuto a “rivelare” fatti o circostanze attinenti al proprio cliente, di cui ha avuto contezza in ragione dell’incarico ricevuto. Sotto tale profilo l’obbligo in menzione e più in generale la normativa antiriciclaggio nella sua interezza,  influisce sensibilmente sull’essenza del rapporto fra professionista e cliente: il segreto professionale.

Il diritto al segreto si configura come una species del più ampio genus rappresentato dal diritto alla riservatezza e tutela l’interesse della persona a non far conoscere ad altri, se non al depositario scelto, una determinata informazione o dato personale.

Il diritto al segreto può coinvolgere aspetti che attengono non solo alla legittima tutela della propria dignità, intesa quest’ultima come diritto al rispetto della propria immagine ed identità nelle relazioni sociali, ma anche come libertà di scelta del singolo individuo di portare a conoscenza di un altro soggetto (il professionista) una vicenda personale o un aspetto attinente la propria persona, allo scopo di poter esercitare un diritto ulteriore ovvero, più genericamente, per realizzare un obiettivo ulteriore.

Così circoscritto il diritto al segreto appare non come tutela di uno specifico interesse, ma piuttosto come tutela della libertà di instaurare una relazione giuridica per realizzare interessi ulteriori, senza sacrificare (o rischiare di sacrificare) aspetti che riguardano la propria sfera personale o addirittura i propri diritti fondamentali.

Il segreto professionale, va ricordato, coinvolge aspetti che possono ripercuotersi sul professionista sotto il profilo di una sua responsabilità deontologica, penale e civile.

A ciò si aggiunga l’art. 622 del codice penale espressamente prescrive: “Rivelazione di segreto professionale Chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare nocumento, con la reclusione fino a un anno o con la multa da lire sessantamila a un milione.
La pena è aggravata se il fatto è commesso da amministratori, direttori generali, sindaci o liquidatori o se è commesso da chi svolge la revisione contabile della società.
Il delitto è punibile a querela della persona offesa”.

Massima espressione della tutela del segreto professionale è poi contenuta nell’art. 200 del codice di procedura penale, ai sensi del quale “non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto in ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria: gli avvocati, i consulenti tecnici e i notai; gli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale”.

Il segreto professionale è quindi un diritto dovere per il professionista, al quale fanno esplicito riferimento anche i codici deontologici delle diverse categorie.

Tutti tali precetti sono rafforzati dalla previsione di specifiche sanzioni professionali comminabili dall’ordine di appartenenza, che possono provocare anche la sospensione del professionista.

E’ evidente che sussiste una particolare attenzione verso il profilo della segretezza riguardante dati ed informazioni di cui il professionista è venuto a conoscenza in forza di un rapporto fiduciario che si è instaurato con il proprio cliente per l’adempimento di un incarico professionale.

Sotto questo profilo il vulnus creato dalla normativa “antiriciclaggio” ed “antiterrorismo” è certamente forte e va ad incidere, a monte, sui diritti che l’ordinamento giuridico ritiene meritevoli di tutela.

Indubbiamente la normativa antiriciclaggio/antiterrorismo fa assumere al rapporto professionista – cliente caratteri più spiccatamente pubblicistici, abbandonando un’area di prevalenza privatistica.

Come è noto, non sussiste un diritto di rango costituzionale generico che tuteli il segreto professionale, talché non è invocabile una pretesa di incostituzionalità nei confronti di una norma che attentasse al segreto professionale, tuttavia eventuali profili di incostituzionalità possono riscontrarsi nel caso in cui il segreto professionale sia posto a presidio di interessi di rango costituzionale.

La problematica coinvolge il giusto e ragionevole bilanciamento che deve essere effettuato tra valori omogenei allo scopo di non sacrificare diritti e libertà del cittadino in mancanza di specifiche esigenze di tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza generale.

Bilanciamento degli interessi e dei valori coinvolti che deve avvenire tramite un processo di proporzionalità che si snoda attraverso una prima fase di individuazione dell’interesse pubblico meritevole di tutela che giustifica la misura limitativa, di una seconda fase che valuta l’idoneità della misura a perseguire, concretamente, quel dato interesse ed una terza fase di verifica della non eccedenza della misura rispetto alle finalità, ovvero possibilità di escludere ragionevolmente che quel dato interesse non sia tutelabile anche attraverso altre misure, meno restrittive .

Non può, peraltro, essere trascurato che la problematica relativa al rapporto tra normativa antiriciclaggio e segreto professionale non può essere limitata alla sola tutela del diritto alla difesa o all’accesso alla giustizia ma è da estendere in modo più ampio alla tutela del cittadino all’accesso al diritto. In una società complessa come quella europea quest’ultima garanzia non è meno preziosa della prima. La possibilità per ogni cittadino di disporre di un consulente indipendente per poter conoscere il quadro normativo che disciplina la sua particolare situazione costituisce una garanzia essenziale dello Stato di diritto.

Per le ragioni suesposte la normativa antiriciclaggio ed antiterrorismo è costretta a disporre esplicitamente che le segnalazioni all’UIF non costituiscono violazione di obblighi di segretezza e del segreto professionale e di conseguenza non comportano responsabilità di alcun tipo (civile, penale, amministrativa) per i liberi professionisti, ovvero per i loro dipendenti o collaboratori, a condizione che ovviamente tali segnalazioni vengano poste in essere:

  1. per le finalità previste dalla norma: il libero professionista è quindi tenuto a conoscere la normativa, anche per evitare di trasmettere segnalazioni a vanvera che, oltre che a far o perdere tempo agli organi inquirenti, potrebbero danneggiare ingiustamente i clienti segnalati, con conseguente esposizione dell’incauto professionista segnalante alle sanzioni penali, civili, nonchè a quelle comminate dall’ordine per l’ingiustificata violazione dell’obbligo al segreto professionale.
  2. in buona fede: le considerazioni sopra esposte si accentuano, ovviamente, nel caso in cui la segnalazione priva di fondamento non sia frutto di semplice ignoranza, o di leggerezza, ma venga effettuata in mala fede.