Abitualità e occasionalità: come distinguere?

La differenza tra un’attività svolta in maniera occasionale con previsione di un compenso e un’attività svolta in forma di lavoro autonomo oppure organizzata in forma d’impresa rappresenta un aspetto su cui il contribuente deve soffermarsi, in sede di analisi dei redditi, anche per non incorrere in violazioni che potrebbero tradursi in pesanti sanzioni pecuniarie.

Come spesso accade, nel nostro sistema tributario non esistono regole che, facendo riferimento a criteri oggettivi di carattere temporale o applicando altri parametri, consentano di individuare in maniera netta le differenze che distinguono le attività abituali da quelle occasionali. Al riguardo, lo stesso Ministero delle Finanze sottolinea l’incertezza esistente sull’argomento quando, al fine di distinguere l’“abitualità” dall’“occasionalità”, confida in una valutazione da assumere “caso per caso sulla base delle situazioni di fatto riscontrabili in concreto”.

Per il Ministero delle Finanze (circolare n. 7/1496 del 30 aprile 1977) “l’attività svolta in forma abituale deve intendersi un normale e costante indirizzo dell’attività del soggetto che viene attuato in modo continuativo: deve cioè trattarsi di un’attività che abbia il particolare carattere della professionalità”.

In sostanza, l’elemento dell’abitualità abbinato a quello della professionalità sta a delimitare un’attività caratterizzata da ripetitività, regolarità, stabilità e sistematicità di comportamenti.

Di converso, la locuzione “occasionale”, riferito alle attività commerciali e di lavoro autonomo previste dall’articolo 67, comma 1, lettere i) e l) del Tuir, si concretizza nei caratteri della contingenza, della eventualità e della secondarietà (Cassazione, sentenza 1052 del 20 giugno 1988).

Su questo argomento si segnala la sentenza n. 15031/2014 della Corte di Cassazione in relazione a un contribuente che svolgeva attività di falegname senza aver dichiarato alcun tipo di reddito. In questo caso il ricorrente aveva opposto esclusivamente motivi legati alla natura del reddito, nel senso che non contestava l’ammontare del reddito riscontrato dagli organi accertatori (pari a euro 3.407 e comunque non dichiarati), bensì la natura del reddito da annoverarsi tra quelli diversi e non tra quelli d’impresa. Con riferimento al modello UNICO il quadro relativo all’indicazione dei redditi diversi è denominato “quadro RL”, mentre il reddito d’impresa è ospitato nel “quadro RG”.

La Suprema corte, ponendo l’attenzione esclusivamente sulle modalità di svolgimento dell’attività, dà torto al contribuente in quanto rivela che i seguenti elementi:

  • preventivi con indicazione degli elementi da utilizzare
  • disegni in scala dei mobili da realizzare
  • costi dei trasporti e della mano d’opera da utilizzare

evidenziano una certa professionalità nella conduzione degli affari con argomentazioni riconducibili a quelle riportate nella già citata circolare del 1977, che rappresenta al momento l’unico indirizzo di prassi per gli operatori del diritto tributario. Dalla sentenza è anche possibile dedurre che una determinata fattispecie reddituale non può assumere una certa natura anziché quella propria in ragione dell’esiguità del reddito: in altri termini un certo reddito non è di natura residuale solo perché ammonta a poco più di 3.000 euro; contano invece esclusivamente le modalità operative, dato che una certa attività può essere organizzata in forma di impresa o lavoro autonomo e risultare in perdita.

Un aspetto da considerare, nel caso esaminato dalla Suprema Corte, è la circostanza che il contribuente non aveva provveduto a dichiarare alcun reddito, omettendo la presentazione della dichiarazione. Nel caso specifico, se il contribuente avesse presentato la dichiarazione dei redditi con l’indicazione di quel reddito anche tra quelli diversi, la questione sarebbe stata limitata alla natura del reddito e il compito dell’organo verificatore sarebbe stato sicuramente meno agevole, in quanto avrebbe dovuto dimostrare la sussistenza degli elementi afferenti la natura abituale dell’attività svolta.

Nicolò Cipriani – Centro Studi CGN