Le indagini finanziarie: l’estensione ai dati relativi a soggetti terzi consente una difesa efficace?

Le indagini finanziarie costituiscono uno degli strumenti più incisivi di cui l’Amministrazione Finanziaria dispone nella lotta all’evasione fiscale.
L’acquisizione dei dati relativi alle dinamiche finanziarie del contribuente pone delicate questioni di equilibrata tutela di interessi costituzionalmente garantiti e protetti: all’interesse dell’erario di far si che ciascun contribuente sia sottoposto all’imposizione della sua effettiva capacità contributiva si contrappone l’interesse del cittadino – contribuente di veder tutelata la sua riservatezza.
Ne deriva l’ovvia esigenza che l’interrogazione dell’anagrafe bancaria e la successiva acquisizione dei dati tramite gli intermediari finanziari debba essere preventivamente autorizzata onde prevenire indebite ed illegittime intrusioni nella sfera personale.

Le autorizzazioni in questione si iscrivono a pieno titolo tra gli atti amministrativi discrezionali (non trattandosi, ovviamente, di atti dovuti): ne deriva la necessità che esse siano congruamente motivate (in particolare, secondo le istruzioni diramate tanto dall’Agenzia delle Entrate quanto dal Comando Generale della Guardia di Finanza, con riguardo alla ricorrenza dei presupposti di fatto e di diritto che rendono necessario il ricorso a tale strumento istruttorio).

Le autorizzazioni in esame costituiscono “atti interni” del procedimento e in quanto tali se ne nega l’autonoma impugnabilità (sul rilievo che essi non sarebbero nella condizione di ledere direttamente ed autonomamente la sfera giuridica e patrimoniale del contribuente). Inoltre, costituendo atti di un procedimento tributario, finché il procedimento non si sarà concluso (alternativamente con l’archiviazione o con l’emissione di un avviso di accertamento) essi si sottraggono al diritto di accesso previsto dalla Legge 241/1990, giusto il combinato disposto degli artt. 22 e 24, 1° c., lett. b) (in tal senso si è espresso il Consiglio di Stato – dec. n. 264 del 07.04.1995). Peraltro tali atti non vengono neppure portati a conoscenza del soggetto interessato, il quale avrà notizia della loro esistenza (ma non del loro contenuto) a seguito della comunicazione che gli dovrà essere fatta a cura dell’intermediario finanziario.

Poste tali premesse, ci si sofferma brevemente sulla ricorrente estensione della verifica a conti, rapporti e dati relativi a soggetti terzi rispetto al contribuente sottoposto a controllo, legati a quest’ultimo da vincoli di vicinanza, parentela, rapporto funzionale (si pensi al coniuge o altri familiari, conviventi e non, o ai soci ed amministratori di società).
Appare evidente che tale estensione della verifica debba risultare congruamente motivata anche con specifico riferimento ai presupposti di fatto che inducono a ritenere che il soggetto terzo si sia prestato a fare da “filtro” alle operazioni finanziarie riconducibili al contribuente, secondo lo schema della cd. “interposizione soggettiva”.

Sul punto la giurisprudenza di vertice si è dimostrata molto spesso assai poco garantista dei diritti spettanti al soggetto sottoposto a controllo (giungendo, ad esempio, a giudicare “espediente normale” l’intestazione dei conti al coniuge: le nozioni di comune esperienza insegnano al contrario che il soggetto terzo molto spesso è a sua volta centro di autonomi e specifici interessi economici, i cui punti di contatto col soggetto sottoposto a verifica sono tutti da dimostrare).
Sembra viceversa assolutamente necessario che la motivazione dell’autorizzazione all’accesso ai conti del soggetto terzo sia tale da consentire di svolgere al riguardo una sia pur ritardata attività difensiva.

Ne consegue che l’eventuale difetto di motivazione del provvedimento autorizzatorio realizza il cd. “vizio di illegittimità derivata”, tale da riverberarsi sui successivi atti, finendo con l’inficiare di illegittimità lo stesso avviso di accertamento. Tale conclusione sembra l’unica in grado di tutelare efficacemente il diritto alla difesa costituzionalmente protetto (art. 24 Cost.).
Meno radicale, ma pur sempre garantista, è l’indirizzo della Corte di Cassazione ribadito con Sentenza n. 26454 del 23.09.2008, dep. iI 04.11.2008 che, rifacendosi alla pronuncia resa a Sezioni Unite il 21 novembre 2002, n. 16424, conclude per la radicale inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione delle norme procedimentali.

Autore: Mauro Comin – Centro Studi CGN