Rivalutazione partecipazioni, caccia ai plusvalori

La nuova riapertura al prossimo 1 luglio dei termini per la rivalutazione a pagamento delle partecipazioni societarie possedute da soggetti Irpef, oltre che dei terreni, disposta dalla legge di stabilità 2013, offre l’opportunità di soffermarsi sul tema della valutazione d’azienda, da cui discende il valore parallelo dei pacchetti di quote o azioni.

Oltre che costituire un argomento accattivante, tuttavia, la ricognizione a fini fiscali del capitale economico di un’impresa espone ad insidie sia il professionista incaricato sia la società oggetto della stima.

Mentre il primo deve prestare attenzione alla veridicità delle proprie conclusioni, pena il rischio di responsabilità deontologiche, civili ed anche penali trattandosi nel caso in esame di perizie asseverate con giuramento, per le seconde incombe a nostro parere un possibile sindacato di valore da parte dell’Amministrazione Finanziaria.

Sembra infatti azzardato ipotizzare sempre un’accondiscendenza di fronte a valori economici palesemente sopravvalutati, al solo scopo di innalzare il costo di acquisto della partecipazione con il pagamento di un’imposta sostitutiva piuttosto contenuta (4% per le partecipazioni qualificate, 2% per le partecipazioni non qualificate) e ridurre il capital gain in sede di trasferimento.

A questo scopo non è neanche troppo difficile immaginare l’utilizzo del sempre più versatile concetto di “abuso di diritto”.

Per queste ragioni è opportuno prestare la massima attenzione al procedimento tecnico di valutazione. Si tratta di una materia che, in quanto delegificata, richiede di attingere alle indicazioni della dottrina e della prassi professionale.

Allo stato, i metodi di valutazione generalmente riconosciuti sono i seguenti:

  • metodi patrimoniali;
  • metodi reddituali;
  • metodi finanziari;
  • metodi misti;
  • metodi empirici.

I metodi patrimoniali mirano ad assegnare un valore corrente ad attività (compresi alcuni intangibles nella versione complessa del metodo) e passività dell’azienda da valutare, in luogo degli importi di bilancio che potrebbero tradire, in alcuni casi, costi storici di rilevazione inattuali.

Certo è che un’azienda assume valore in dipendenza del proprio rendimento, in quanto finalizzata in condizioni fisiologiche ad un’attività produttiva più che alla vendita delle singole componenti del capitale.

Dal punto di vista della razionalità i metodi patrimoniali destano quindi delle perplessità che sono state da tempo sottolineate dagli studiosi, al punto che il valore algebrico del patrimonio potrebbe forse più apprezzarsi come garanzia per l’investitore.

I criteri reddituali e finanziari ricostruiscono invece determinati flussi economici e monetari prodotti dalla gestione, attualizzati al momento di riferimento della perizia utilizzando dei tassi di interesse espressivi della rischiosità dell’attività dell’azienda.

Tuttavia, la previsione di queste grandezze prospettiche presenta notevoli margini di incertezza, quand’anche suffragata dall’analisi di budget o business plan aziendali.

I criteri misti affiancano alla valutazione patrimoniale la capitalizzazione del reddito previsionale, che configura l’avviamento positivo o negativo.

I metodi empirci, infine, si basano su moltiplicatori da applicare al fatturato o al patrimonio netto contabile, frutto dei valori di compravendita di aziende analoghe.

Questi criteri, discutibili sul piano teorico ma efficaci, potrebbero avvalersi anche degli esiti di precedenti perizie di partecipazioni della stessa società o di consociate similari.

In definitiva, indipendentemente dai metodi prescelti per la stima o anche la conferma della valutazione, non va ignorato che le dinamiche patrimoniali, reddituali e finanziarie costituiscono l’esito dell’interazione dei fattori competitivi di vantaggio disponibili per l’imprenditore, spesso peraltro non espressi nelle sintesi di bilancio.

Alessandro Tentoni