La responsabilità tributaria dei chiamati all’eredità

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 36080 del 23/11/2021, ha chiarito alcuni rilevanti profili in tema di responsabilità per le obbligazioni del de cuius da parte dei chiamati all’eredità.

Nel caso di specie, con avviso di accertamento notificato collettivamente ed impersonalmente agli eredi, l’Agenzia delle Entrate aveva chiesto il pagamento dei debiti tributari del de cuius.

Il ricorso proposto dagli eredi avverso l’atto impositivo veniva accolto dalla Commissione Tributaria Provinciale sul rilievo che la rinuncia all’eredità operata dagli eredi dopo la notifica dell’avviso di accertamento aveva, ai sensi dell’art. 521 cod. civ., efficacia retroattiva.

L’appello proposto dall’Ufficio veniva respinto dalla Commissione Tributaria Regionale, la quale osservava che la doglianza dell’Ufficio circa l’omessa redazione dell’inventario dei beni caduti in successione ex art. 485 cod. civ., con conseguente inefficacia della rinuncia all’eredità effettuata dai contribuenti, era infondata.

Avverso tale sentenza l’Agenzia delle Entrate proponeva infine ricorso per cassazione, deducendo la nullità della sentenza per motivazione apparente e la violazione degli artt. 485 cod. civ. e 2697 cod. civ., per avere i giudici di secondo grado, a fronte della pacifica circostanza relativa all’avere i chiamati all’eredità il domicilio nello stesso immobile in cui aveva il domicilio il de cuius, ritenuto non sussistente il possesso dei beni ereditari e, conseguentemente, ritenuto che i chiamati non avessero perso il diritto di rinunciare all’eredità ai sensi dell’art. 485 cod. civ.

Secondo la Suprema Corte il ricorso era fondato.

Evidenziano i giudici di legittimità che, secondo il disposto dell’art. 485 cod. civ., «il chiamato all’eredità, quando a qualsiasi titolo è nel possesso di beni ereditari, deve fare l’inventario entro tre mesi dal giorno dell’apertura della successione o della notizia della devoluta eredità. Se entro questo termine lo ha cominciato ma non è stato in grado di completarlo, può ottenere dal tribunale del luogo in cui si è aperta la successione una proroga che, salvo gravi circostanze, non deve eccedere i tre mesi. Trascorso tale termine senza che l’inventario sia stato compiuto, il chiamato all’eredità è considerato erede puro e semplice».

In sostanza, se il chiamato che si trovi nel possesso di beni ereditari non compie l’inventario nei termini previsti non può rinunciare all’eredità, ai sensi dell’art. 519 cod. civ., in maniera efficace nei confronti dei creditori del de cuius (compreso il Fisco), dovendo egli, allo scadere dei termini stabiliti per l’inventario, essere considerato erede puro e semplice (cfr., Cass. n. 4845 del 2003).

La motivazione della sentenza censurata dall’Amministrazione finanziaria era invece del seguente tenore: «In merito alla doglianza dell’Ufficio, circa l’omessa redazione dell’inventario dei beni caduti in successione, ex art. 485 c.c., che avrebbe determinato la perdita del diritto di rinunciare all’eredità, si osserva che non è dato sapere se gli eredi rinunciatari si trovano nel possesso dei beni ereditari».

Tale affermazione, rileva la Cassazione, secondo la quale gli eredi non erano tenuti a redigere l’inventario dei beni caduti in successione e dunque non erano decaduti dal diritto di rinunciare all’eredità per la mancata formazione dell’inventario nei termini previsti, per quanto detto, era dunque erronea, oltre che priva di qualsiasi riferimento alla fattispecie concreta, a fronte delle specifiche deduzioni formulate dall’Agenzia delle Entrate in ordine, in particolare, alla circostanza relativa all’avere i chiamati all’eredità il domicilio nello stesso immobile in cui aveva il domicilio il de cuius.

E quindi la sentenza era caratterizzata da una motivazione meramente apparente, che non rendeva in ogni caso percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento (cfr., Cass. n. 13977 del 2019).

In conclusione e a prescindere dallo specifico caso processuale, in termini più generali, giova anche evidenziare quanto segue.

Costituisce principio pacifico quello secondo cui l’assunzione della qualità di erede non può desumersi dalla mera chiamata all’eredità, né dalla denuncia di successione, che ha valore di atto di natura meramente fiscale, ma consegue solo all’accettazione dell’eredità, espressa o tacita.

La stessa Cassazione ha chiarito, che, in ipotesi di debiti del de cuius di natura tributaria, l’accettazione dell’eredità è una condizione imprescindibile affinché possa affermarsi l’obbligazione del chiamato all’eredità a risponderne, non potendo, quindi, ritenersi obbligato chi abbia rinunciato all’eredità, ai sensi dell’art. 519 cod. civ. (cfr., Cass., 29/03/2017, n. 8053; Cass., 18/04/2019, n. 10908).

Considerato pertanto che l’accettazione dell’eredità è il presupposto perché si possa rispondere dei debiti ereditari, una eventuale rinuncia, anche se tardivamente proposta, esclude che possa essere chiamato a rispondere dei debiti tributari il rinunciatario, sempre però che egli non abbia posto in essere comportamenti dai quali si possa desumere un’accettazione implicita dell’eredità, della cui prova è onerata l’Amministrazione finanziaria.

In ogni caso, occorre che si tratti di atti incompatibili con la volontà di rinunziare e non altrimenti giustificabili se non con la veste di erede, occorrendo quindi accertare se il chiamato si sia mantenuto o meno nei limiti della conservazione e dell’ordinaria amministrazione del patrimonio ereditario.

Giovambattista Palumbo