Greenwashing: verso una nuova frontiera della trasparenza

Se dovessimo tradurre il greenwashing in modo semplice e diretto, dovremmo parlare di “ecologismo di facciata”.
Il greenwashing racchiude infatti una serie di pratiche ingannevoli adottate da alcune aziende, per dimostrare un finto impegno nei confronti della tutela ambientale. L’obiettivo è evidente: si vuole catturare l’attenzione dei consumatori, considerando che oggi tutela e sostenibilità ambientale acquisiscono sempre più “peso” nelle scelte di acquisto.

Il termine “greenwashing” (coniato a metà degli anni ’80) ha una storia lunga alle spalle. Già negli anni ’60 alcune aziende hanno iniziato ad adottarlo, sfruttando una certa “benevolenza” dei consumatori verso politiche aziendali di tutela ambientale.

Il problema è che la benevolenza non equivale alla consapevolezza, che richiede ricerca, verifica e comparazione di informazioni. Un lavoro quasi d’inchiesta per il quale le persone non hanno strumenti efficaci, a maggior ragione nelle fasi di acquisto (guidate da abitudini personali e bias cognitivi).

Aziende e greenwashing: le conseguenze

Un’azienda che oggi continua a mettere in atto azioni di greenwashing rischia di incorrere in pericolosi rischi reputazionali, che includono una serie di possibili conseguenze.

  • Perdita di fiducia dei consumatori: il greenwashing è la “peste bubbonica” per quanto riguarda la fiducia delle persone verso un brand. L’emersione diffusa di affermazioni ingannevoli di un’azienda rischiano di compromettere seriamente la percezione di fiducia che le persone attribuiscono inconsciamente a un brand.
  • Impatto negativo sul marchio: un’azienda coinvolta in pratiche di greenwashing rischia di vedere il proprio marchio danneggiato, che diventa non solo meno attraente per l’utente finale ma anche verso gli investitori.
  • Danno reputazionale: nell’epoca della comunicazione istantanea, le notizie negative sui brand possono diffondersi in modo rapidissimo. Per un’azienda non avere politiche per la gestione di crisi reputazionale, può avere effetti nefasti.

Pratiche di greenwashing: alcuni esempi 

Il fenomeno del greenwashing può includere diverse tipologie di attività. Eccone alcune.

  • Etichettatura Ingannevole: le descrizioni ambiguamente positive, che fanno apparire i propri prodotti come più sostenibili di quanto realmente siano. Ma anche l’immagine iper-green di quelle campagne pubblicitarie che suggeriscono un impegno ecologico senza però avere basi concrete.
  • Pratiche Ambiguamente Sostenibili: le attività di marketing che promuovono iniziative marginali, con cui una realtà tende ad enfatizzare piccole iniziative sostenibili, mantenendo invece pratiche aziendali generali poco sostenibili. Ma anche la valorizzazione promozionale degli aspetti positivi in ambito green senza mostrare in modo accurato l’impatto ambientale complessivo dell’azienda.
  • Certificazioni Non Attendibili: l’ottenimento di certificazioni ambientali da organizzazioni poco conosciute o poco affidabili, presentate come indicatori di sostenibilità senza una valutazione obiettiva.
  • Compensazione di carbonio non verificata: la dichiarazione di compensazione di emissioni di carbonio senza effettive azioni concrete per ridurre l’impronta di carbonio.

Greenwashing: dall’Europa un segnale importante 

Per le aziende che praticano azioni di greenwashing, si prevedono però tempi sempre più complicati.
Il 17 gennaio il Parlamento Europeo ha approvato in prima lettura la proposta di Direttiva sulla responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde (“Empowering Consumers for the Green Transition”). Lo scorso 20 febbraio il Consiglio dell’Unione Europea ha approvato il testo della direttiva.

Inserendosi nel solco degli obiettivi della Commissione Europea per il mandato 2019-2024 (il cosiddetto Green Deal), la nuova normativa modifica altre due direttive esistenti (la 2005/29/UE sulle pratiche commerciali sleali e la 2011/83/UE sui diritti dei consumatori) per adattarle alla transizione verde.

In questo scenario, la direzione è quella di proteggere i consumatori da pratiche di commercializzazione ingannevoli, per aiutarli a compiere scelte di acquisto più informate. Si va quindi verso una pubblicità più attendibile, che vieti l’uso di indicazioni ambientali generiche e ambigue come prodotti “rispettosi dell’ambiente”, “eco” o “ad impatto climatico zero.


A tutela dei consumatori: le novità della normativa

Per quanto riguarda l’arco temporale della tutela di garanzia dei prodotti, un altro importante obiettivo della normativa è aumentare l’attenzione di produttori (e consumatori) verso la durata dei prodotti. Si va verso la creazione di un nuovo marchio armonizzato per dare maggiore risalto ai prodotti con un periodo di garanzia più esteso.

Ma il testo della Direttiva contiene altri aspetti fondamentali. Nello specifico:

  • Si chiarisce cosa si intende con sistema di certificazione ambientale.
  • Si definisce il concetto di “terza parte”: se manca, è pratica commerciale sleale.
  • Le nuove etichette private saranno ammesse ma solo se apportano un “valore aggiunto” sul mercato rispetto a quelle già esistenti.
  • Vengono definite le regole che devono stare alla base della messa sul mercato di nuove certificazioni; in alternativa le certificazioni dovranno essere proibite in quanto lesive della concorrenza leale.

Dopo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale, gli Stati membri avranno 24 mesi di tempo per recepirla nel diritto nazionale.

Enrico Chiari – Centro Studi CGN

Corporate Social Responsibility Manager in Servizi CGN Società Benefit