Licenziamenti e le tutele crescenti: torna la discrezionalità del giudice

Un nuovo intervento sulla normativa dei licenziamenti illegittimi e delle tutele crescenti si succede a poca distanza dalle modifiche, alla medesima disciplina, apportate dal recente Decreto Dignità (D.L. 87/2018 cnv. in Legge 96/2018). Vediamo di cosa si tratta.

La Corte Costituzionale, con comunicato stampa del 26 settembre 2018, ha reso noto di aver dichiarato illegittimo l’articolo 3, comma 1, D.Lgs. 23/2015, sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, nella parte che determina in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato.

In particolare, la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è, secondo la Corte, contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione. Tutte le altre questioni relative ai licenziamenti sono state dichiarate inammissibili o infondate.

Dunque, in sostituzione della sola anzianità di servizio (posta alla base del concetto di “tutele crescenti”, in luogo del potere di apprezzamento del giudice, pilastro invece delle tutele offerte dalla L. 604/1966 e dall’art. 18,L. 300/1970), si ritiene (prudenzialmente) che ora i giudici dovranno applicare i “vecchi” principi previsti dall’art. 8, L. 604/1966, poi ripresi dall’art. 18, comma 6, L. 300/1970, ossia anzianità di servizio del lavoratore, numero dei dipendenti occupati, dimensioni del datore di lavoro, comportamento delle parti (sia quello desumibile dai verbali dell’eventuale tentata conciliazione ai sensi dell’art. 410 c.p.c., sia in giudizio) e le condizioni delle parti.

Alla luce di tale pronuncia, ecco come andrebbe ora letto l’art. 3 in questione, dopo le modifiche apportate dal D.L. 87/2018 (c.d. Decreto Dignità) e alla luce della pronuncia della Corte Costituzionale:

Salvo quanto disposto per i licenziamenti c.d. disciplinari (ovvero intimati per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore), nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo non inferiore a 6 e non superiore a 36 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, in relazione all’anzianità di servizio del lavoratore, al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni del datore di lavoro, alle condizioni e al comportamento delle parti (sia quello desumibile dai verbali dell’eventuale tentata conciliazione ai sensi dell’art. 410 c.p.c., sia in giudizio), con onere di specifica motivazione.

Resta inteso che per le “piccole imprese” (ossia quelle prive dei requisiti dimensionali di cui all’art. 18, comma 8, L. 300/1970) e le organizzazioni di tendenza non si applica la normativa sui c.d. licenziamenti disciplinari (di cui all’art. 3, comma 2, D.Lgs. 23/2015) e la forbice a disposizione del giudice va 3 a 6 mensilità.

E per i licenziamenti già comminati, impugnati o per i quali pende già un giudizio davanti al Tribunale?

È noto che le sentenze di accoglimento della Corte Costituzionale producono l’annullamento delle norme di legge dichiarate incostituzionali, con effetti erga omnes, non solo ex nunc, ma anche ex tunc, con il solo limite dei cc.dd. rapporti esauriti.

L’art. 30, Legge. 87/1953 – a norma del quale “le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione” – va infatti interpretato nel senso che la decisione dichiarativa di incostituzionalità ha efficacia anche relativamente ai rapporti giuridici sorti anteriormente, purché ancora pendenti e cioè non esauriti, per tali dovendosi intendere quei rapporti nell’ambito dei quali non siano decorsi i termini di prescrizione o decadenza per l’esercizio dei relativi diritti e per i quali non si sia formato il giudicato.

Quindi la dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma rileva anche nei processi in corso, ma non incide sugli effetti irreversibili già prodottisi. Ciò perché la retroattività degli effetti della dichiarazione d’incostituzionalità incontra un limite negli effetti che la stessa, ancorché successivamente rimossa dall’ordinamento, abbia irrevocabilmente prodotto qualora resi intangibili dalla preclusione nascente o dall’esaurimento dello specifico rapporto giuridico disciplinato dalla norma espunta dall’ordinamento giuridico oppure dal maturare di prescrizioni e decadenze ovvero, ancora, dalla formazione del giudicato.

Schema indennità risarcitoria in caso di licenziamento illegittimo ai sensi art. 3 D.Lgs. 23/2015:

licenziamenti-tutele-crescenti

Francesco Geria – LaborTre Studio Associato