Illegittimo il licenziamento del lavoratore che rifiuta la prestazione a favore di cliente senza la mascherina

Il datore di lavoro può licenziare il lavoratore per giusta causa, nel caso in cui quest’ultimo si sia rifiutato di servire un cliente sprovvisto di mascherina? Il tribunale di Arezzo si è espresso al riguardo.

In conseguenza all’emergenza epidemiologica causata da Covid-19, di recente sembra sorgere ed instaurarsi una particolare forma di contenzioso del lavoro, soprattutto con riferimento ad ipotesi in cui risulti applicabile la disciplina emanata durante tale periodo in via emergenziale.

Il Tribunale di Arezzo, Sezione Lavoro, con sentenza del 13 gennaio 2021, n. 9 ha confermato quanto precedentemente stabilito con Ordinanza del 7 luglio 2020, ovvero l’illegittimità del licenziamento del lavoratore per giusta causa conseguente al rifiuto di servire un cliente sprovvisto di mascherina.

Riassumendo brevemente la vicenda, il datore di lavoro riteneva che il licenziamento per giusta causa fosse legittimo in quanto il lavoratore, rifiutando di servire un cliente che non indossava la mascherina di protezione anche se invitato a coprirsi con la felpa indossata, risulterebbe inadempiente con riferimento ai suoi obblighi contrattuali e avrebbe danneggiato gravemente l’immagine aziendale.

È bene ricordare che ai sensi dell’articolo 2119 del codice civile, la giusta causa di licenziamento si sostanzia in un comportamento talmente grave da non consentire la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro.

Qualora si configuri una giusta causa di licenziamento, il datore di lavoro può recedere dal contratto senza preavviso nel caso di rapporto a tempo indeterminato ovvero prima della scadenza del termine in caso di contratto a tempo determinato.

In tal caso, il giudice ha ritenuto il licenziamento illegittimo in quanto il rifiuto del servizio non può essere considerato un fatto grave da giustificare la giusta causa poiché “non recò pregiudizio per un mancato acquisto di un pacchetto di sigarette”.

Inoltre, non si configura alcun elemento di gravità per quanto accaduto.

Infatti, “la gravità morale ed economica è parte integrante della fattispecie di illecito disciplinare contestata” al dipendente e non sono stati provati né dedotti elementi che possano integrarla.

Il giudice ha, pertanto, ritenuto che la condotta contestata dal datore di lavoro fosse inidonea a ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, non violando l’obbligo di fedeltà ex articolo 2105 del codice civile né, tantomeno, integrando giusta causa di licenziamento.

Sia la contrattazione collettiva che la giurisprudenza hanno infatti individuato diverse fattispecie che si sostanziano in una giusta causa di licenziamento, inserendo tra queste anche la violazione dell’obbligo di fedeltà e diligenza da parte del prestatore di lavoro.

Ai sensi dell’articolo 2105 c.c. il lavoratore non deve trattare affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con l’imprenditore nel medesimo settore commerciale o produttivo (divieto di concorrenza).

Inoltre, il prestatore di lavoro non può divulgare notizie riguardanti l’organizzazione e i metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo pregiudizievole per l’impressa stessa (obbligo di riservatezza).

Tuttavia, la giurisprudenza ha ampliato il concetto legale di obbligo di fedeltà, intendendosi per tale l’obbligo di tenere un comportamento leale, basato sulla buona fede e correttezza.

La violazione di tale obbligo è fonte di responsabilità disciplinare e del relativo obbligo risarcitorio quando causa un danno al datore di lavoro e qualora quest’ultimo riesca a fornirne la prova.

La sentenza in questione evidenzia, inoltre, come il lavoratore si sia limitato ad esercitare il diritto, costituzionalmente garantito, a svolgere la propria prestazione lavorativa in condizioni di sicurezza.

Infatti, “l’esimente stato di necessità gli consentiva del resto, pur in assenza di una specifica disposizione di legge, anche di astenersi dal lavoro poiché lo svolgimento della prestazione lo esponeva ad un rischio di danno alla persona”.

In materia, è possibile fare riferimento all’articolo 32 della Costituzione che al comma 1 stabilisce come la Repubblica tuteli la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisca cure gratuite agli indigenti.

Nel nostro ordinamento la tutela della salute è, pertanto, un diritto fondamentale sia individuale che collettivo che deve essere tutelato in qualsiasi ambito, anche lavorativo.

Alla luce di quanto sopra indicato il Tribunale di Arezzo ha respinto l’opposizione e confermato l’ordinanza del 7 luglio 2020 di reintegra del dipendente nel posto di lavoro impugnata dal datore di lavoro.

In tale periodo emergenziale stanno sorgendo numerosi dubbi in merito alla disciplina applicabile in determinate situazioni, soprattutto in costanza di disposizioni non dettate da norme di legge e, pertanto, suscettibili di essere subordinate a fonti di rango superiore.

Naturalmente, disposizioni quali ad esempio il distanziamento sociale e l’utilizzo obbligatorio della mascherina sono poste a tutela di un bene primario, la salute individuale e collettiva, giustificando in tal modo la “restrizione della libertà personale”.

Sarà pertanto interessante prendere atto della recente giurisprudenza in materia e di quelle che di certo vedranno la luce a seguire.

Francesco Geria – LaborTre Studio Associato