Licenziamento del lavoratore per scarso rendimento: quando è legittimo?

Con la Sentenza n. 20284 datata 14 luglio 2023, la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per scarso rendimento intimato ad un dipendente a causa del reiterato mancato rispetto di programmi ed obiettivi di produzione predeterminati, qualificabile come notevole inadempimento.

Nella fattispecie presa in esame il lavoratore aveva impugnato, avanti il Tribunale in funzione di giudice del lavoro, il licenziamento intimatogli per giusta causa.

Nel primo grado di giudizio il Tribunale aveva dichiarato legittimo il licenziamento intimato nei confronti del lavoratore, riqualificando tuttavia la tipologia del licenziamento da giusta causa a giustificato motivo soggettivo e, di conseguenza, condannando la società al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso.

La Corte d’Appello di Roma aveva poi respinto il ricorso proposto dal dipendente, confermando la Sentenza di primo grado.

In particolare, la Corte aveva accertato che la prestazione dedotta nel contratto di lavoro era finalizzata ad un risultato indicato dal datore di lavoro, ovvero i target di produzione periodicamente stabiliti e, confrontando i risultati raggiunti dal lavoratore con gli obiettivi previsti dalla programmazione aziendale, aveva confermato il giudizio di scarsa produttività del dipendente, già formulato dal Tribunale.

Venivano poi accertati anche i seguenti fatti:

  • la società non aveva imposto alcun metodo di suddivisione dei clienti tra i lavoratori in forza ma questi erano assegnati in modo casuale, ad estrazione o per suddivisione numerica e solo in seguito “aggiustati” a discrezione dei venditori, favorendo coloro che avevano già fidelizzato un cliente da tempo. Metodo, dunque, che non favoriva la produzione di alcuni lavoratori a discapito del ricorrente, come sostenuto invece da quest’ultimo;
  • la mancata affissione del codice disciplinare era irrilevante essendo contestato al lavoratore l’inadempimento per negligenza e imperizia degli obblighi derivanti dal contratto di lavoro;
  • il licenziamento era fondato sulla scarsa resa produttiva del dipendente conseguente al costante mancato rispetto dei programmi di lavoro in precedenza stabiliti e tale misura espulsiva puniva il fatto nuovo, mai contestato prima, dell’insufficienza della produzione nel primo semestre 2016, cui dovevano aggiungersi, ai fini della valutazione di gravità della condotta inadempiente, i precedenti disciplinari specifici esprimenti e la recidiva del lavoratore nella medesima mancanza;
  • il licenziamento si fondava su una causale ampiamente dimostrata e ciò era sufficiente ad escludere l’esistenza di un motivo illecito che, per costante giurisprudenza, deve essere unico e determinante.

Avverso la sentenza della Corte d’Appello, il lavoratore aveva presentato nuovamente ricorso in Cassazione.

La Suprema Corte, tuttavia, ha ritenuto infondati tutti i motivi di ricorso precisando, con riferimento alla irrilevanza della mancata affissione del codice disciplinare, che il potere del datore di lavoro di risolvere il contratto di lavoro subordinato in caso di notevole inadempimento degli obblighi contrattuali deriva direttamente dalla legge (ex articolo 3 Legge n. 604/1966) e non necessita, per il suo legittimo esercizio, di una dettagliata previsione, nel contratto collettivo o nel regolamento disciplinare predisposto dal datore di lavoro, di ogni possibile ipotesi di comportamento integrante il suddetto requisito, spettando al giudice di verificare, ove si contesti la legittimità del recesso, se gli episodi addebitati integrino l’indicata fattispecie legale.

Pertanto, anche se non specificamente previste dalla normativa negoziale, costituiscono ragione di valida intimazione del recesso le gravi violazioni dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, quali sono i doveri imposti dagli articoli 2104 e 2105 c.c., e quelli derivanti dalle direttive aziendali.

È stato poi precisato che, in tema di sanzioni disciplinari di cui all’articolo 7 della Legge n. 300/1970, deve distinguersi tra illeciti relativi alla violazione di specifiche prescrizioni attinenti all’organizzazione aziendale e ai modi di produzione, conoscibili solamente in quanto espressamente previste, ed illeciti concernenti comportamenti manifestamente contrari ai doveri dei lavoratori e agli interessi dell’impresa, per i quali non è richiesta la specifica inclusione nel codice disciplinare.

Non ricorre, inoltre, la violazione dell’articolo 7 dello Statuto dei Lavoratori per violazione dell’obbligo di contestazione della recidiva. La Corte di merito aveva, infatti, confermato la statuizione di primo grado dopo aver interpretato la stessa nel senso dell’avvenuta valutazione non della recidiva in senso tecnico, bensì della “recidività”, cioè della reiterazione delle medesime condotte quale dato rilevante al fine della valutazione di gravità dell’elemento soggettivo.

Nel caso di specie, infatti, i giudici di merito avevano tenuto conto, ai fini della gravità della condotta, dei precedenti disciplinari specifici riferiti a diversi periodi (senza quindi alcuna violazione del principio del ne bis idem), ricavando dal protrarsi del comportamento inadempiente del dipendente, nonostante le sanzioni conservative irrogate, la convinzione della maggiore intensità della colpa al medesimo addebitabile.

Francesco Geria – LaborTre Studio Associato